IL Sacro & l’Horror
Il Sacro oggi si cela nelle narrative che sanno evocare la vertigine dell’abisso
Il mondo contemporaneo – digitale, veloce e iperconnesso – sta inglobando il mondo antico, disfacendone la magia e relegando quella sua lenta saggezza su uno scaffale. Parrebbe quasi che del sacro non resti più nulla, ma non è così. Sciolto dalla sua connotazione prettamente religiosa, si è perpetuato attraverso una delle sue forme più antiche: il racconto. E il racconto stesso, nelle sue due strutture principali – come vedremo meglio più avanti, il “viaggio dell’eroe” e la “tragedia della fanciulla” –, è il cuore pulsante della dinamica oppositiva sacer/profanus. Proverò qui a seguire la suggestione secondo cui la narrazione cinematografica – ed in particolar modo quella dell’orrore – sia una delle forme inedite attraverso cui l’uomo può fare esperienza di questa dicotomia, anche nella sua accezione più terribile. Il terrore che si prova infatti, contemplando lo svolgersi del racconto, non è dato dall’empatia che ci suscita il protagonista – né tantomeno dal concatenarsi di effetti sonori e visivi di successo: è la vertigine che dovevano provare gli iniziati al cospetto di un rituale sacro, è l’abisso creato dallo sciamano nelle sue profezie divinatorie, è la rivelazione di un segreto. La natura di questo segreto è ovviamente molto dibattuta e ogni cultura – o religione – l’ha interpretata a modo proprio, facendone il fondamento di tutta la sua gnoseologia.
Mi baserò, nell’arco delle mie argomentazioni, sulla concezione filosofica (Bataille, 1957; Galimberti, 2004 e Campbell, 1949) secondo cui il cuore di questo segreto sia il “sacro” stesso, definito come il dialogo eterno tra l’individuo e “la totalità dell’essere” (Bataille, 1957). I film horror[1] che prenderò ad exemplum[2] – volutamente selezionati negli ultimi cinque anni per meglio tenere conto della sensibilità odierna – riescono infatti, seguendo le due strutture narrative sopra citate, a dar conto di questa rivelazione e a costringerci a riflettere su chi siamo davvero.
LA DICOTOMIA SACER/PROFANUS
Nella storiografia sullo studio delle religioni, una delle più importanti dicotomie è certamente quella descritta da sacer/profanus[3]. Di derivazione latina, sacer indica “tutto ciò che viene dedicato agli dei, sottratto cioè alla sfera profana per essere loro consacrato” e fa riferimento anche ad una sua precisa connotazione spaziale, andandone a delineare in modo nitido il perimetro. Il senso di questo confine stabilisce una prassi: il divieto di varcare la soglia sacra senza il permesso, il tabù di profanare l’oggetto del culto e così via; queste imposizioni vengono descritte nella loro natura ufficiale e legale dalla coppia oppositiva latina sanctus/sine sanctione, che va a costituire, insieme alla dicotomia già citata sacer/profanus, il corpus del diritto sacrale. È proprio questo corpus di diritto a rendere il contesto sacro particolare: in esso la violenza degli atti è posta al di là dell’umano, in una ritualizzazione che consente all’uomo di sperimentare l’abisso, senza provare su di sé gli effetti dissolventi dovuti alla sua indiscriminata generalizzazione[4]. I rituali sono quindi il contesto tutelato adibito a questa sperimentazione, e il sacrificio – nelle sue varie forme – ne è l’apice[5]. Ma i modi per fare esperienza di questo abisso nel corso della propria vita sono diversi e se da un lato possiamo farlo direttamente – come nella sessualità ad esempio[6] o nelle pratiche più avanzate di meditazione[7] – dall’altro abbiamo la possibilità di rendere quest’esperienza comunicabile e quindi trasmissibile. È il caso, quest’ultimo, del racconto. Sostiene Burkert (1996) infatti che “attraverso la narrazione, la realtà umana viene verbalizzata e diventa oggetto di comunicazione inter-personale”[8]. Ovvero il racconto si fa “rivelazione di un’esperienza originaria e diventa così mito” (Otto, 2007)[9].
LA STRUTTURA DEL RACCONTO
Il “viaggio dell’eroe”: la violazione del sacro.
“Non sarebbe esagerato affermare che le inesauribili energie del cosmo si manifestano nella cultura umana proprio attraverso il mito” affermò J. Campbell (1949), sostenendo nel suo “L’Eroe dai mille volti” che il mito si configuri a partire da un linguaggio simbolico e che come racconto si vada a strutturare seguendo un’ossatura specifica. Questa specificità strutturale, rilevata anche da Propp (1968) nei suoi studi narratologici, ha un ordine ben preciso che possiamo qui riassumere brevemente: comincia con la separazione o partenza dell’eroe (in cui il protagonista fa i primi passi nell’avventura rispondendo ad una chiamata, varca la soglia del regno soprannaturale ed entra nel “ventre della balena” ovvero affronta l’ignoto della nuova dimensione), prosegue con la sua discesa o iniziazione (l’eroe affronta prove via via più difficili fino a superare la prova finale che gli permetterà di ottenere la ricompensa o “elisir”) e infine termine con il suo ritorno (l’eroe fa ritorno al suo mondo originario con la ricompensa guadagnata). Campbell ci ricorda che il “varco della soglia è sempre una sorta di auto-annientamento” e che “il tempio interiore, il ventre della balena e il paese beato sono la medesima cosa”: i confini sacri corrispondono a quelli della soglia soprannaturale e i suoi guardiani sono “le personificazioni preliminari dell’aspetto pericoloso del dio”[10]. Non ci è nuovo questo concetto: avevamo già parlato della dicotomia sacer/profanus e di come questa definisca ciò che è sacro come “quel luogo in cui si rivela il Sacro, e cioè una realtà ontologica, una potenza, che fonda, per chi vi crede, la <vera> realtà, opposta e distinta dalla realtà profana”[11] (Dupront, 1987).
Questa rappresentazione dicotomica risulta particolarmente chiara in “Annientamento” (2018) di A. Garland: nel film, il confine è una barriera luminescente creatasi in seguito alla caduta di un corpo celeste sulla Terra, chiamata “Bagliore”, che a sua volta delimita il perimetro del raggio d’influenza del meteorite, l’Area X. Quest’ultima ha i caratteri propri del luogo sacro: al suo interno vigono infatti leggi estranee all’uomo, ad esempio gli orsi riproducono la voce umana oppure le mutazioni modificano la struttura biologica delle creature viventi. Di altra natura invece è il confine che separa le forze ctonie dal mondo di superficie nel recentissimo “Noi – Us” (2019) di J. Peele ed anche in “Necropolis – As Above As Below” (2014) di J. E. Dowdle: la soglia del “tempio” qui è una porta nascosta, è il richiamo ad una concezione degli Inferi che trae dalla specularità il suo potere narrativo. Specularità che può avere molte connotazioni diverse. In “Noi”, infatti, è tutta giocata tra mondo sotterraneo e mondo di superficie, laddove coloro che abitano rispettivamente il primo sono legati inesorabilmente ai secondi. ⁂ Un universo di dicotomie che la protagonista Adelaide affronterà violando per prima la porta sacra, sostituendosi fin da bambina con la sua copia di superficie e vivendo così la vita destinata all’altra se stessa.⁂ In “Necropolis” invece, la specularità è definita all’interno dei confini sacri, nell’opposizione tra andata e ritorno. La discesa nelle Catacombe di Parigi alla ricerca della pietra filosofale è a tutti gli effetti la discesa negli Inferi: all’ingresso di uno dei tunnel che i protagonisti dovranno attraversare si staglia, come una ferita sulla pietra, l’antica ammonizione dantesca “Lasciate ogni speranza, o voi che entrate”. ⁂ Uscire dal luogo sacro tuttavia, non sarà facile come entrarvi: solo la comprensione del corpus sacrale e la fede in esso permetteranno ai protagonisti di trovare l’uscita.⁂ Il tema della violazione del confine sacro si ripresenta in questi film puntualmente, seguendo le caratteristiche della “partenza dell’eroe”: le protagoniste, mosse da una necessità, sceglieranno di varcare la soglia e di entrare nel “ventre della balena” con tutte le conseguenze che ne deriveranno. ⁂ In “Annientamento” Lena cerca una cura per il marito malato ed entra nell’Area X, in “Noi” Adelaide vuole una vita migliore e decide di salire in superficie varcando la porta della giostra e in “Necropolis” Scarlet, per trovare la pietra filosofale, deve avventurarsi nel cuore delle catacombe di Parigi, violandone l’ingresso.⁂ Le violazioni del luogo sacro sono consapevoli e mosse da una necessità.
La “tragedia della fanciulla”: la violazione del profano.
Ma il “viaggio dell’eroe” non è l’unico modello che i programmi narrativi possono seguire e la violazione del confine non è sempre voluto dai protagonisti: esiste anche la “tragedia della fanciulla”. Un esempio contemporaneo di questa forma è certamente “The Witch” (2015) di Robert Eggers: Thomasin, la protagonista adolescente della storia, è umana e non tradisce alcun carattere ultraterreno. La potenza sacrale, l’inquietudine, sono tutt’attorno: nel respiro della foresta, nel comportamento strano degli animali, nelle visioni e nella paura che serpeggiano tra i membri di una famiglia puritana nel New England del 1600 che, esiliata dalla comunità di appartenenza, deve trovare il modo di sopravvivere all’innaturale e soprattutto alla propria stessa follia. ⁂ La storia di Thomasin ripercorre passo passo la “tragedia della fanciulla” descritto da Burkert (1996)[12]: 1 – una frattura subitanea, ovvero l’esilio di tutta la famiglia, la costringe a lasciare la comunità di appartenenza; 2 – in questo primo periodo di segregazione, in cui tutto sembra vertere per il meglio, Thomasin soffre di tutte le inquietudini dell’adolescenza; 3 – l’equilibrio viene distrutto con la scomparsa del fratellino più piccolo e l’inizio di un vero e proprio incubo in cui vengono coinvolti tutti i membri della famiglia; 4 – con la morte del secondo fratello, Thomasin viene infine accusata di tutte le stranezze soprannaturali, della scomparsa del primo fratello e di essere una strega, con la sua conseguente reclusione; 5 – la fanciulla viene salvata dalla stessa entità che aveva causato tutti i suoi guai (ovvero il demone celato nell’animale della famiglia, un caprone nero di nome Black Philip) e viene trasformata davvero in una strega.⁂ La violazione del confine qui ha un carattere ben diverso rispetto a quello che ha nel “viaggio dell’eroe”: se lì il protagonista varca la soglia volutamente e accede al “ventre della balena”, qui pare essere esattamente l’opposto. La sensazione angosciosa è proprio quella secondo cui l’eroe subisce passivamente una condizione che non capisce, perché il contesto profano è stato violato da quello sacro e questa violazione ne ha compromesso la natura.
Anche in “It follows” (2014) di D.R. Mitchell possiamo assistere alla stessa dinamica. La protagonista Jay, dopo aver consumato un rapporto sessuale “marchiante”, è in fuga da un male senza volto – l’entità assume di volta in volta le sembianze di una persona diversa – e senza scopo – non si sa perché la insegua o perché voglia ucciderla. I campi lunghi scelti dal regista rendono evidenti due caratteristiche dell’entità: da un lato infatti è immediatamente riconoscibile, perché la preda è vittima del suo “occhio che fissa”[13](Burkert, 1996); dall’altro, appena compare nel campo visivo e per quanto possa vestire panni umani, risulta immediatamente estranea al contesto. Il sacro entra nel profano, ne viola l’ambiente, ed è proprio questa “profanazione” al contrario a suscitare il terrore, ad aprire l’abisso sotto i nostri piedi. Il sacro cammina in mezzo a noi e, come la protagonista, non possiamo sapere quando trasgrediremo le sue leggi. Ma se in “It follows” è una violazione che riguarda un individuo alla volta e che trasmette come una malattia la punizione del suo trasgredire, in altri casi “l’estensione dei luoghi sacri può variare fino a racchiudere in sé territori così vasti, da coincidere con il mondo stesso”[14].
È il caso di alcuni film come “Birdbox” (2018) di S. Bier, “A quiet place – Un posto tranquillo” (2018) di J. Krasinski o l’ancor più recente “The Silence” (2019) di J. R. Leonetti. Come abbiamo già accennato, i luoghi sacri non sempre hanno mura o barriere visibili. Si possono definire nell’universo simbolico cinematografico all’improvviso e all’improvviso “il ventre della balena” ingloba la totalità del profano, modificandone la natura. Così in “Birdbox”, ad esempio, l’uomo non può comprendere la visione sacra e non può sopportarne la vista: coloro che la contemplano, infatti, si uccidono. Solo i pazzi, che fin lì non avevano aderito alle leggi profane, possono accedere alla verità divina e accettarne, promulgandoli, i suoi dettami. “A quiet place” e “The silence” seguono lo stesso programma narrativo usando, invece della vista, l’espediente dell’udito: il nuovo ordine sacrale infatti impone un “sacro” silenzio, che non può essere rotto con la voce o con il rumore. È interessante notare come, in tutti e tre i film, i protagonisti cerchino in ogni modo di delineare un perimetro entro cui poter salvaguardare e rinnovare l’ordine profano perduto. Non ci è nuova questa necessità: il sacro ha bisogno del profano e viceversa; un universo sacro senza profano finirebbe per dissolverci e così allo stesso modo il mondo senza il luogo sacro inaridisce nelle mani delle sole individualità.
LA VERTIGINE DELL’ABISSO
La narrazione cinematografica dell’orrore sembra allora essere in grado di dare testimonianza di un dialogo che risale a molto prima della sua nascita: “un dialogo eterno che si svolge tra l’individuo e la totalità dell’essere” (Bataille, 1957) e che è, in ultima istanza, tutto ciò che finora abbiamo identificato con la dicotomia sacer/profanus. Ciò che ci sgomenta e ci pervade d’inquietudine – ciò che è l’abisso e ciò che è la vertigine, ovvero la contemplazione di questo abisso – è proprio la differente natura tra noi e la “totalità”, tra la cosa mortale, profana – che finisce – e quella immortale, sacra, che continua a perpetrarsi attraverso di noi. Il terrore suscitato da uno qualsiasi dei film horror citati è proprio la resa tangibile di una differenza che non è immediatamente comprensibile e che, come abbiamo già accennato, non solo è molto simile alla vertigine che dovevano provare gli iniziati al cospetto di un rituale sacro, ma è allo stesso tempo la rivelazione di questo segreto, di questo dialogo eterno, di questa inquietudine eterna. Secondo Bataille (1957) infatti, la violenza della morte è dovuta al fatto che ci “strappa dalla nostra ostinazione di vedere durare quell’essere discontinuo che noi siamo”, perché l’eternità certo non è nostro appannaggio ma lo è di quell’unità originaria da cui ci allontaniamo con timidezza e a cui cerchiamo di tornare senza timore. Il dialogo tra individuo e totalità così, se da una parte opera per la conservazione della sopravvivenza dell’individuo, dall’altra si fa memoria di quella “nostalgia per l’unità originaria che, annullandoci, ci collega all’essere” (Galimberti, 2004).
Il sacro esige l’inquietudine perché è una “nostalgia”, una ricerca e una lotta interiore – che possiamo decidere di vivere consapevolmente, come nel “viaggio dell’eroe” oppure a cui ci abbandoniamo perché incapaci di comprenderne le leggi, come nella “tragedia della fanciulla”. È il mondo antico che pulsa in arterie segrete e trova il modo di arrivare fino a noi, aprendo abissi nel pavimento – o sullo schermo.
È la lenta saggezza della paura, “dell’occhio che fissa”[15], della consapevolezza che solo contemplando l’orrore ci si difende dall’orrore e che, come sosteneva Eco (1994)[16], solo riflettendo sul rapporto tra realtà e finzione si evita il sonno della ragione, che genera mostri.
BIBLIOGRAFIA
• Bataille G., (1957) L’érotisme [tr. It. L’erotismo, Mondadori, Milano 1972]
• Bronkhorst, (1998) The Two Sources of Indian Asceticism
• Burkert W., (1996) Creation of the Sacred [tr. It. La creazione del sacro, Adelphi, Milano 2003]
• Campbell J., (1949) The Hero with a Thousand Faces [tr. It. L’eroe dai mille volti, Guanda Editore 2000]
• Dupront A., (1987) Du sacré [tr. It. Il sacro, Bollati Boringhieri, Torino 1993]
• Filoramo G., (2004) Che cos’è la religione, Einaudi
• Galimberti U., (2004) Le cose dell’amore, Feltrinelli, Milano
• Otto W. F., (1962) Mythos und Welt, [tr. It. Il mito, Il melangolo, Genova 2007]
NOTE
[1] I film trattati nel corso dell’articolo sono i seguenti, in ordine di apparizione:
– “Annientamento” (2018) di A. Garland
– “Noi – Us” (2019) di J. Peele;
– “Necropolis” (2014) di J.E. Dowdle
– “The Witch” (2016) di R.Eggers;
– “It follows” (2014) di D.R. Mitchell
– “Birdbox” (2018) di S. Bier
– “A Quiet Place” (2018) di J. Krasinski
– “The Silence” (2019) di J.R. Leonetti
[2] L’articolo contiene dettagli inerenti alla trama dei film sopra elencati. Consiglio, qualora non li abbiate visti e non desideriate anticipazioni indiscrete, di fare attenzione a questo simbolo: “⁂”. La frase che seguirà, infatti, è SPOILER!
[3] G. Filoramo, Che cos’è la religione, Einaudi, 2004, p.89-p.109
[4] Si veda anche U. Galimberti, Le cose dell’amore, Feltrinelli, Milano 2004, p.45: “Maledetto nella comunità degli uomini, il sacro, con tutto il suo corredo di trasgressioni divine, di pratiche sessuali proibite, di forme di violenza e di brutalità che ogni mitologia ospita (…) , diventa benedetto quando è trasferito all’esterno. Con questa espulsione l’uomo è strappato alla sua violenza che, divinizzata, è posta al di là dell’umano come entità separata, come cosa che riguarda gli dei”.
[5] G. Bataille, L’érotisme (1957); tr. It. L’erotismo, Mondadori, Milano 1972, p.30: “Il sacro è la totalità dell’essere rivelato a coloro i quali, nel corso di una cerimonia, contemplano la morte di un essere individuale”.
[6] U. Galimberti, Le cose dell’amore (2009); Feltrinelli, Milano 2004, p. 25: “Ma c’è un modo di sperimentare la morte della propria individualità nel corso della vita: è il modo della sessualità in quel suo apice che è l’orgasmo”.
[7] Nel suo studio sull’ascetismo, Bronkhorst (The Two Sources of Indian Asceticism, 1998) avrebbe trovato nei rituali sacrificali vedici, grazie alla nascita dell’ascetismo, l’origine di alcune pratiche meditative: in sostanza l’esperienza mentale e psicologica provata in queste pratiche meditative sarebbe analoga a quella provata presenziando ai rituali sacrificali vedici.
[8] W. Burkert, Creation of the Sacred (1996); tr. It., La creazione del sacro, Adelphi, Milano 2003, p.81: “il racconto è la forma grazie alla quale un’esperienza complessa diventa comunicabile”.
[9] W. F. Otto, Mythos und Welt, (1962); tr. It., Il mito, Il melangolo, Genova 2007.
[10] J. Campbell, The Hero with a Thousand Faces (1949); tr. It. L’eroe dai mille volti, Guanda Editore 2000, p.87.
[11] A. Dupront, Du sacré (1987); tr. It. Il sacro, Bollati Boringhieri, Torino 1993.
[12] W. Burkert, Creation of the Sacred (1996); tr. It. La creazione del sacro, Adelphi, Milano 2003, p.95
[13] W. Burkert, Creation of the Sacred (1996); tr. It. La creazione del sacro, Adelphi, Milano 2003, p.64: “ Uno speciale segno ansiogeno è l’occhio che fissa. Questa reazione di paura è chiaramente basata su un antichissimo e generale programma biologico. La natura ha inventato l’occhio per la ricerca di cibo, e il <cibo> potenziale, vivo ed egoista, ha imparato a guardarsi dall’occhio.”
[14] G. Filoramo, Che cos’è la religione, Einaudi, 2004, p.217
[15] W. Burkert, Creation of the Sacred (1996); tr. It. La creazione del sacro, Adelphi, Milano 2003, p.64: “ Uno speciale segno ansiogeno è l’occhio che fissa. Questa reazione di paura è chiaramente basata su un antichissimo e generale programma biologico. La natura ha inventato l’occhio per la ricerca di cibo, e il <cibo> potenziale, vivo ed egoista, ha imparato a guardarsi dall’occhio.”
[16] U. Eco, Sei passeggiate nei boschi narrativi (1994), p.170-173